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Redazione:
Mariadonata Costantini  Elisabetta Jafrancesco  Leonardo Gandi
Massimo Maggini
Fiorenza Quercioli
Camilla Salvi
Annarita Zacchi

Webmaster: Leonardo Gandi

N. 6
maggio-agosto 2003


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Alcuni suggerimenti per una didattica efficace
Paolo Torresan 

Con questo contributo vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori una serie di riflessioni che sono frutto di una osservazione sul campo, di letture, di accorgimenti che provengono dalla mia esperienza di formando presso vari enti di formazione.

1. Gestire le domande

Uscire dal seminato è un vizio di molti insegnanti. Ad una domanda semplice dello studente, del tipo:

"Scusi, che cosa significa "faccia"?"

la risposta è spesso eccessiva:

"Questo è un verbo, non è il sostantivo femminile "la faccia", ma è la terza persona del congiuntivo di "fare", è uguale per tutte e tre le persone singolari, ma è irregolare al congiuntivo. Questo, è il congiuntivo, sai".

Succede anche il caso contrario, che si abbia cioè una risposta stringata:

"É un congiuntivo, ma lascia perdere: lo trattiamo più avanti".

La prima risposta è incongruente: la questione posta dallo studente non verte infatti sulla forma ma sul significato del termine. Lo stesso può esser detto per la seconda, con l’aggravante che l’insegnante risulta evasivo: oltre a non aver colto il fatto che lo studente chiede il significato e non la natura grammaticale, compie l’errore di glissare, e così facendo priva lo studente del suo ruolo di ricercatore, per trattarlo alla stregua di un bambino, del tipo: "non è ora", "più tardi", "stai buono".

Saper rispondere è un’arte: le parole che usiamo rivelano se e quanta attenzione prestiamo a chi ci interroga:

"Moltissimi insegnanti di lingua chiedono [...]: Che cosa hai fatto ieri sera? (perché vogliono lavorare con il passato prossimo) e se lo studente risponde: Sono stato a casa a guardare la televisione, o se dice: Ho ucciso mio padre, non importa: si procede comunque a fare la stessa domanda: Che cosa hai fatto domenica scorsa? Per lo studente l’unico modo per ottenere un segno di interesse da parte dell’insegnante è dire: Ho ucciso il mio padre. In questo caso l’insegnante dice: Ho ucciso...? Ho ucciso....? e l’alunno, con i suggerimenti degli altri studenti, si corregge: mio padre. E si passa alla prossima domanda". (1)

Possiamo leggere altri vizi di fondo nelle risposte descritte in precedenza: nella prima, il bisogno di sfoggiare un sapere (un insegnante di lingua ha poche occasioni di farlo rispetto ad un insegnante di filosofia o di chimica - se non appunto quando "fa" grammatica o quando parla di cultura) (2) determina, con l’aumentare del numero delle parole, la maggiore incomprensibilità del messaggio; nella seconda, il criterio del tutto personale, da parte del docente, circa la convenienza della domanda, inibisce le future richieste degli studenti; questi si domanderanno infatti se quello su cui desidererebbero avere una risposta può essere chiesto o meno, e se è lecito, in quel momento della lezione, dire: "non capisco", "cosa vuol dire?", "puoi ripetere?"

Una risposta metodologicamente corretta alla domanda:

"Scusi, cosa significa "faccia"?"

potrebbe essere invece:

"significa "fa""

Nel caso in cui lo studente fosse insoddisfatto, potrebbe riformulare la domanda:

"Perché qui c’è "faccia", e non "fa""?"

E quindi l’insegnante:

"Perché è un congiuntivo"

E lo studente potrebbe ancora chiedere:

"Quando si usa?"

La risposta dell’insegnante potrebbe essere induttiva :

"Guarda il verbo che c’è prima, cosa ti fa pensare?"

o deduttiva:

"Prima c’è il verbo "credo", che esprime un dubbio",

a seconda del livello di competenza metalinguistica dello studente.

In sostanza, solo attraverso un’autodisciplina che esige che l’insegnante dia risposte pertinenti e minime, viene data allo studente un’autentica possibilità di replica, di analisi, di approfondimento. Viceversa, l’insegnante che parla sopra le righe o che congela la domanda dello studente, ostacola l’attività di ricerca dell’intera classe.

2. Gestire l’assenso

"Cos’hai fatto ieri, Ahmed?"

"Io… ho andato al sinema"

"Ah, sei andato al cinema! A vedere cosa?"

"Aldo, Giovanni e Giacoma"

"Ah, Aldo, Giovanni e Giacomo, e come…".

Ripetere quello che dice lo studente (con le dovute correzioni, realizzate inconsciamente dall’insegnante, senza però essere tematizzate) genera noia: immaginate dieci studenti intervistati a turno su come hanno passato il fine settimana (3). In secondo luogo l’insegnante rimane sempre al vertice dello scambio: dopo Ahmed, sarà il turno di Siby, poi Arben, e via di seguito, tutti uno scalino più sotto rispetto al docente (poiché spetta a lui dire l’ultima parola), proprio come avviene nell’interazione adulto-bambino.

È bene allora che l’insegnante si chieda quale chiave (nel senso della key psicologica di cui parla Hymes) (4) voglia dare all’interazione con gli studenti e quale tipo di immagine voglia far passare circa il modello di comunicazione presente in Italia (5). È ancora una volta un invito al silenzio, inteso, secondo l’insegnamento di Gattegno , come un non appropriarsi delle parole del discente (6).

3. Gestire il tempo

La parola inglese timing, riferita alla gestione dei tempi, ha preso piede in molti linguaggi settoriali. Nell’ambito dell’insegnamento essa riguarda tanto i tempi da rispettare nella pianificazione curricolare (il fatidico "dobbiamo finire il programma", che penso sia una tra le frasi più pronunciate dai docenti), che alla scansione delle attività durante la lezione.

In particolare, programmare meticolosamente le attività ha una ricaduta positiva sulla tenuta dell’attenzione della classe e dà l’impressione che l’insegnante sia responsabile, si prepari le lezioni e si sappia gestire. Viceversa, se l’insegnante non è in grado di tenere i ritmi, di mediare tra la velocità di alcuni e la lentezza di altri, e di alternare momenti di riflessione con momenti di reimpiego giocoso, nella classe si creano noiosissime sacche di attesa.

Non c’è attività o tecnica che sia immune da un calcolo dei tempi: una drammatizzazione richiede che si stenda una scaletta di azioni e di consegne e si preveda un tempo di realizzazione ben determinato, tanto quanto avviene per un’attività di comprensione, un’analisi morfosintattica, una riflessione sociolinguistica ecc.

[continua]

Note
(1) Humphris, C., 1998, "Nell’insegnamento comunicativo quanta attenzione viene posta alla comunicazione in classe?", in Insegnare una lingua: riflessioni e proposte. Atti del 10° seminario internazionale per insegnanti di lingua, Dilit, Roma, p. 13. torna al testo
(
2) Humphris, C., 1997, "Perché gli studenti non si impegnano di più?", in Parlare. Atti del 9° seminario internazionale per insegnanti di lingua, Dilit, Roma, p. 195.  torna al testo

(3) Sinclair, J. McH & Brazil, D., 1982, Teacher talk, Oxford University Press, Oxford.  torna al testo
(4) Gumperz, J., Hymes, D., 1972, Directions in Sociolinguistics. The Ethnography of Communication, Holt Rinehart Wiston, New York.
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(5) Humphris, C., 1993, Sul "fare eco", Bollettino Dilit, 2, 7-10.
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(6) Gattegno, C, 1972, Teaching Foreign Languages in Schools: The Silent Way, Educational Solutions, New York.
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© Didattica & Classe Plurilingue 2002-03

Bollettino realizzato con il contributo del Quartiere 5 del Comune di Firenze