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N.1
aprile-maggio 2002


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Eva Hoffman, quattordici anni, polacca
Leonardo Gandi

Questa è una voce che viene da lontano, nello spazio e nel tempo: quella di Eva Hoffman, una ragazzina polacca emigrata in Canada dalla Polonia nel 1959, a quattordici anni. Ne do qui una semplice eco, traducendo liberamente da un testo che racconta la storia di Eva e della sua acquisizione dell’inglese. Questa storia è a sua volta un riassunto dell’autobiografia scritta dalla stessa Eva (1).

Eva arriva in Canada dalla Polonia nel 1959. Ha 14 anni. Il primo impatto con il Canada è del tutto negativo. Brutta la natura, brutte le case, dentro e fuori, brutti e antipatici i compagni di scuola. Fanno scherzi scemi, parlano di cose futili, il modo in cui passano il tempo dopo le lezioni è una barba. I canadesi, decide, sono tutti noiosi, conformisti e senza spirito di avventura. Insomma, nell’incontro con il nuovo mondo e la nuova cultura il piacere è zero.

Però Eva, allo stesso tempo, è arrivata in Canada con delle aspirazioni e delle mete molto ambiziose. Vuole imparare l’inglese, e vuole impararlo benissimo, in tutte le sue sfumature. È una lingua colta e raffinata che desidera imparare. Ecco perché, quando è ancora lì che muove i primi passi, trova piatte e sgraziate espressioni come "you’re welcome". Si innamora invece di parole letterarie come "enigmatic" o "insolent". È quello l’inglese che lei vuole parlare, e, anche se per il momento le sue abilità sono minime, Eva "sente" il buon inglese, come suona, come deve suonare. L’inglese parlato dagli immigranti polacchi dell’inglese ha solo il nome. Per prima cosa, Eva si darà un gran daffare per liberarsi dal suo accento. Una cosa che ha molto chiara, per averla imparata in Polonia, è che se per farsi capire basta usare comunque la lingua, usarla come si deve assicura prestigio sociale. Ti eleva. Una padronanza perfetta dell’inglese, ne è convinta, sarà perciò la chiave di ogni successo.

Non è però soltanto il desiderio di imparare l’inglese della élite intellettuale e artistica nordamericana a muovere Eva. Lo è anche la sua paura di fallire. Sa che la sua famiglia conta su di lei. La povertà è per tutti loro una minaccia reale. C’è un’angoscia sottesa ai progetti di Eva: quella di ritrovarsi a un angolo di strada e chiedere la carità. Un suo fallimento personale li trasformerebbe tutti, per davvero, in accattoni. Paure e ambizioni qui si ricongiungono: solo riuscendo negli studi, solo se farà sua la lingua parlata dalle persone più colte del gruppo dominante, potrà lasciarsi alle spalle il destino incerto di immigrata e ottenere ciò che vuole con tutte le sue forze: un posto sicuro nella società, il rispetto degli altri.

La storia di Eva, caso non solitario nella storia dell’immigrazione nel Nordamerica, è a lieto fine. Eva si laureerà a Harvard, in inglese, e diventerà redattrice del NewYork Times Book Review.

Ma ecco che cosa scrive alla fine del suo secondo anno di università: "Sono diventata ossessionata dalle parole … Non voglio lasciare nenche un’immagine senza parole, non permetterò che niente mi passi per la mente finché non trovo la frase giusta per acchiappare e fissare quest’ombra … L’idea che ci siano parti della lingua che mi sfuggono mi getta un po’ nel panico, come se questi vuoti fossero parti mancanti del mondo o della mia mente – come se la totalità del mondo e della mente fossero contemporanee alla totalità della lingua … Quando scrivo, voglio usare tutte le parole che esistono, voglio ricreare, da quelle particelle discrete che sono le parole, l’interezza di una lingua dell’infanzia che parole non aveva".

Non so se è il caso di aggiungere commenti a questo breve frammento di storia. Non lo so, e in ogni caso non vorrei farlo ora. Diamoci piuttosto un appuntamento. Mandateci i vostri commenti, le vostre reazioni: daremo loro spazio nel prossimo numero. Nel frattempo, forse, chi ha letto queste righe, sentirà il desiderio di procurarsi il libro di Eva e ascoltare interamente la sua voce.

(1) L’autobiografia di Eva è Lost in Translation: A Life in a New Language, New York, Penguin Books, 1989. Il testo da cui la riprendo è J. H. Schumann, A neurobiological perspective on affect and methodology in second language learning, in J. Arnold (a cura di), Affect in Language Learning, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. torna al testo

 

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