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Redazione:
Mariadonata Costantini  Elisabetta Jafrancesco  Leonardo Gandi
Massimo Maggini
Fiorenza Quercioli
Camilla Salvi
Annarita Zacchi

Webmaster: Leonardo Gandi

QUADRIMESTRALE A CURA DI

N. 6
maggio-agosto 2003
numeri precedenti

Insegnanti Italiano Lingua Seconda Associati


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Insegnare l’italiano L2 nella scuola pubblica: alcune riflessioni da un’esperienza

Si parla con sempre maggior insistenza dell’italiano L2 come nuova materia di insegnamento nella scuola pubblica. Già, perché annualmente cresce il numero degli studenti stranieri che entrano nella scuola italiana a qualsiasi grado di studi: dalla scuola elementare a quella superiore.

Mi sembra si possa parlare di buone notizie: la nostra società diventa sempre più multietnica e multiculturale e questo non può che rappresentare un valore da sfruttare per le generazioni a venire.

Cosa sarà il futuro lo verificheremo, cosa è oggi la scuola italiana per gli stranieri è problema che tocca i molti figli di immigrati che con grande coraggio e lungimiranza provano l’esperienza di costruirsi una cultura nel nostro paese.

Sono stato chiamato a tenere un corso di italiano per stranieri presso un Istituto Tecnico nei pressi della Stazione Termini di Roma, zona ad alta concentrazione di immigrati. Dopo alcuni anni in cui i professori si sono trovati, completamente privi di strumenti, ad affrontare la nuova emergenza di studenti stranieri nelle classi, il preside ha deciso di affrontare il problema di petto organizzando un corso di italiano per gli studenti bisognosi di imparare la lingua: quattro ore a settimana per un totale di 70 ore nell’arco dell’anno.

La provenienza degli studenti era prevedibile per quella zona, caratterizzata da forti insediamenti di flussi migratori provenienti da Cina, Filippine e sud est asiatico in genere, Europa dell’est, Est africano, Sud America.

Contemporaneamente al corso di italiano una decina di insegnanti hanno partecipato ad una serie di incontri di alfabetizzazione all’insegnamento dell’italiano come lingua seconda: dieci ore appena sufficienti per cominciare a considerare l’insegnamento della lingua italiana a stranieri come una materia a tutti gli effetti.

Gli appuntamenti formativi hanno confermato il dato che nella scuola c’era una grande richiesta di formazione sui temi dell’educazione interculturale e gli insegnanti stessi sentivano di essere in molti casi impreparati ad affrontare situazioni di classi plurilingue. Tuttavia la discussione su una pedagogia che riesca a tener conto delle enciclopedie individuali di tutti gli allievi risultava sì primaria e fondamentale (perché aspetto eticamente centrale), ma in modo più propagandato che sostanziale.

Ciò che infatti risultava impellente, anche per poter considerare nel modo più adeguato la cultura di ogni immigrato, era la possibilità comunicativa reciproca: tra studenti e studenti e tra studenti e insegnanti. Da questa urgenza derivava in modo naturale la mia convocazione: "tu metterai questi studenti nelle condizioni di poter partecipare alle nostre lezioni".

Era una terapia semplice e indolore che veniva dalla diagnosi che quei discenti erano "mancanti" di qualcosa, in sostanza l’impossibilità comunicativa si espletava nella non condivisione della conoscenza del codice attraverso il quale si svolge la lezione, in questo caso ovviamente la lingua italiana. Per dirla con Jakobson, mancava una componente primaria al processo di comunicazione.

Il corso è andato bene, gli studenti hanno partecipato con entusiasmo e hanno migliorato la loro competenza linguistica e soprattutto comunicativa, riuscendo finalmente ad esprimere la loro personalità. Il codice ha cominciato ad essere utilizzato con maggiore padronanza e anche i professori hanno visto apprezzabili miglioramenti.

Nonostante ciò, sebbene i progressi fossero chiari a tutti, alcuni colleghi hanno continuato fino alla fine a chiedermi in che modo dovessero valutare questi studenti nelle loro specifiche materie, quanto dovessero penalizzare una esposizione scorretta, una concordanza errata, un periodo ipotetico stravolto, ma anche un concetto fuori tema, un silenzio ad una domanda.

Gli insegnanti di Storia o di Italiano e di ogni altra materia in genere non sono abituati a dover fare i conti con tali mancanze. Se le valutano errori inammissibili per gli italiani, perché non dovrebbero fare lo stesso con gli stranieri?

Ed effettivamente sembra una deficienza inammissibile ed assurda se ci poniamo in un’ottica d’insegnamento centrata sull’insegnante.

Non è da criticare nessuno, ma è un fatto che l’insegnamento è visto principalmente come una trasmissione di sapere, che si può fare in modi più o meno democratici, più o meno coinvolgenti, più o meno divertenti, ma quello rimane. Per cui è ovvio che se la comunicazione è disattesa lo studente non avrà accesso al sapere, quindi rimarrà indietro, indi per cui presumibilmente arriverà alla fine dell’anno con molti debiti formativi, se non bocciato (1).

La scuola adotta, nella maggioranza dei casi, spiegazioni studio sui libri di testo e verifiche (il più delle volte in forma di colloquio o di compito in classe), ed è lampante come una siffatta lezione difficilmente ha esito positivo su chi non padroneggia la lingua.

Questi problemi, che sono, mi preme sottolinearlo, di prassi quotidiana, gettano gli insegnanti e gli studenti stranieri nella più totale frustrazione facendo sentire entrambi inadeguati al proprio ruolo. E chi ha la peggio da frustrazione e inadeguatezza sono gli studenti, che troppe volte finiscono con l’abbandonare gli studi in maniera definitiva.

In tutte queste riflessioni è stato solo soggiacente un altro aspetto che invece dovrebbe essere sottoposto ad una seria analisi, più che mai nelle realtà di cui si sta parlando: la valutazione. Se la soggettività e l’inadeguatezza dei metodi valutativi adottati nella scuola sono sotto gli occhi di tutti quelli che si occupano di didattica, interrogazioni e compiti in classe rappresentano ancora momenti imprescindibili di verifica e valutazione che si dimostrano assolutamente inidonei (soprattutto) per i nostri allievi (2). I voti che ne derivano il più delle volte non sono capiti e divengono non gocce ma acquazzoni che fanno traboccare vasi già stracolmi.

Purtroppo non ho ricette per risolvere questi problemi, ma per introdurre la parte finale di questo articolo vorrei citare ciò che mi ha detto una ragazza eritrea al colloquio d’ingresso per il corso da me tenuto presto l’Istituto Tecnico: "L’anno scorso sono stata bocciata perché non conoscevo l’italiano. I professori parlano veloci, i libri sono difficili, gli altri studenti ridono quando io parlo. Quest’anno non volevo venire, mi ha convinto mia madre, ma se mi bocciano ancora lascio".

La scuola italiana è chiamata ad un salto di qualità che non può essere lasciato alla buona volontà di un preside o di qualche professore volenteroso o di una madre volitiva e fiduciosa.

E l’insegnante della L2 non può essere considerato come l’unico responsabile e/o conoscitore delle competenze che ci si può aspettare da ogni studente straniero in un qualsivoglia momento del suo processo di apprendimento della lingua italiana. Tutto il corpo insegnante che opera nel campo dell’educazione interculturale dovrebbe poter essere in grado di sapere come comportarsi, cosa chiedere e come valutare (3). La scommessa è forse eccessiva, ma se non si vincerà la scuola italiana continuerà ad essere buona, come veniva detto in un famoso film da un famoso attore, solo per chi non ne ha bisogno (4).

Carlo Guastalla

(1) Quando parliamo di lingua si fa riferimento alla comunicazione, per cui la "lingua dell’insegnante" non si risolve nella componente verbale del discorso (carattere linguistico) ma accoglie in sé fattori cinesici, prossemici, performativi, pragmatici, socio-culturali che hanno eguale importanza nella elaborazione del messaggio. Inoltre, come per il carattere linguistico, anche gli altri caratteri della comunicazione differiscono da cultura a cultura e un gesto, un tono, un sorriso, una distanza possono con grande facilità essere male interpretati. Questo è naturalmente reciproco, ma c’è da sottolineare che in una incomprensione, da qualsiasi parte avvenga, chi ne fa le spese è sempre lo studente. torna al testo
(2) Nella stagione pre-sistematica la "prova orale" per eccellenza era l’interrogazione, un colloquio tra insegnante e allievo caratterizzato da:
- asimmetria: il rapporto era tipicamente quello che intercorre tra inquisitore e inquisito, con le relative implicazioni psicoaffettive;
- scarsa strutturazione: spesso la scelta delle domande era (o almeno appariva) casuale e dettata più dal desiderio di non ripetere le stesse cose che dalla preoccupazione di una verifica sistematica;
- povertà sintattica e pragmatica: se l’insegnante pone solo domande, l’esaminato produce solo risposte, cioè enunciati dichiarativi e con funzione quasi esclusivamente referenziale;
- aleatorietà: per questi motivi, l’interrogazione-colloquio è la prova più esposta all’effetto di alone". (Gianfranco Porcelli, Educazione linguistica e valutazione, Utet, Torino 1998, p. 121).
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(3) "Una maggiore diffusione della conoscenza dei principi acquisizionali e delle caratteristiche dell’italiano L2 dovrebbe consentire, a chi opera nel campo dell’inserimento di stranieri alloglotti nella scuola e nella società italiana, di elaborare curricola sempre più rispettosi delle dinamiche interlinguistiche, mentali e socioculturali in cui sono coinvolti tali apprendenti". (Marina Chini, Apprendere una seconda lingua: principi, fattori, strategie e problemi, in Elisabetta Nigris (a cura di), Educazione Interculturale, Mondatori, Milano 1996, p. 340).
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(4) Si tratta di Silvio Orlando in "La scuola", film di Daniele Luchetti.
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© Didattica & Classe Plurilingue 2002-03

Bollettino realizzato con il contributo del Quartiere 5 del Comune di Firenze