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N. 2
giugno-luglio 2002
numeri precedenti


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L’ interosservazione in classe, uno strumento per conoscere e intervenire
Annarita Zacchi

A partire da un’esperienza personale di osservazione fra insegnanti vorrei suggerire alcune riflessioni intorno ai punti:
(a) perché osservare
(b) come e che cosa osservare

(a) Nell’istituto con cui collaboro si insegnano l’inglese e l’italiano, rispettivamente come lingua straniera e lingua seconda. Nella tradizione anglosassone l’osservazione, intesa sia come supervisione da parte di un superiore ai fini di valutare le competenze e le abilità didattiche dei singoli insegnanti, sia "fra pari", come scambio e confronto, è una pratica diffusa, che fa ormai parte della vita professionale dell’insegnante, in ambito pubblico e privato. Un motivo, per così dire, esterno alla didattica ha ulteriormente contribuito alla diffusione nel nostro istituto della pratica dell’osservazione: l’introduzione delle certificazioni di qualità a livello europeo cui l’insegnamento delle lingue va soggetto prevede un sistema di controllo da parte di organizzazioni private.

Osservare reciprocamente il lavoro in classe è divenuto quindi anche per noi insegnanti di italiano non solo una pratica mutuata dall’insegnamento dell’inglese ma anche una forma di preparazione alla supervisione esterna.

Una prima risposta alla domanda sul perché osservare è dunque riassumibile, nella esperienza descritta, in due punti: (1) perché è reputata una pratica positiva di confronto in un tipo di attività come la nostra, che si svolge perlopiù individualmente; (2) perché è bene abituarsi ad essere osservati, dal momento che il nostro istituto andrà soggetto ad osservazione da parte di esterni. Argomenti più che ragionevoli, anche se forieri di implicazioni, dubbi e domande che qui sospendo, ma evidentemente frutto di decisioni aziendali, che non contemplano la necessità di un più profondo coinvolgimento del corpo insegnante. Il fattore problematico in questo tipo di procedura risiede a mio parere nel non sottolineare a sufficienza l’importanza della motivazione: se il perché non nasce dall’interno, da una seria considerazione di tutti gli aspetti della pratica proposta, l’osservazione rischia di svilirsi in uno sbrigativo adempimento di un dovere.

Ora, sembra che l’immagine si faccia più definita e il dettaglio che aiuta è proprio la motivazione. Poniamo che un gruppo, o una coppia, di questi insegnanti che sono passati attraverso la pratica dell’osservazione decida di andare avanti, di continuare, anche se ciò non è richiesto. Questa decisione autonomamente raggiunta ha un valore profondo e nasce dall’aver cercato e trovato una ragione interna che può essere di tipo diverso. È solo a partire da questo momento che l’osservazione diventa uno strumento conoscitivo per l’insegnante: ciò che spinge ad osservare ha a che fare con questioni, curiosità, domande e problemi che vogliamo condividere. Inoltre, dedichiamo del tempo a questa pratica perché la riteniamo coerente con un progetto di ricerca che ha come fine la risoluzione pratica di problemi inerenti la didattica. Vedremo oltre (b) come attuarlo.

Ho voluto raccontare una storia personale perché la ritengo estendibile, nella sostanza, alla situazione di gran parte degli insegnanti, che credo possano talvolta vivere in modo conflittuale la richiesta sempre più pressante di aggiornamento, quindi di disponibilità fisica e psichica. Ritengo tuttavia superficiale affermare che le resistenze alle novità - o comunque ad interventi che richiedono un investimento ulteriore di tempo per la programmazione - siano da ascrivere alla tradizionale natura individualistica dell’insegnante o allo scarso entusiasmo, dovuto in parte alla ben nota mancanza di un’adeguata remunerazione. Anche se più che sufficienti e validi, questi sono solo i punti visibili di un sommerso più oscuro e grave che fa dell’insegnamento un’entità dispensatrice di saperi confezionati, in grado di creare consumatori e non ricercatori; entità a sua volta soggetta a regole e norme la cui validità sarebbe quantomeno da esplorare. In questo contesto, che per fortuna ha sempre più le sue luminose eccezioni, la scelta da parte degli insegnanti di osservarsi reciprocamente può rappresentare un atto di autonomia nella direzione di una rinnovata volontà di ricerca che contribuisce a restituire dignità sociologica alla professione.

(b) Quest’ultima riflessione può essere condivisa o no, dipende da molti fattori, prima di tutto dalla situazione personale. Un dato certo è che per portare avanti una valida osservazione occorre un progetto pratico: il come. A questo proposito, vorrei aprire una parentesi su una possibile metodologia. Un esempio di come la didattica possa trarre vantaggio da una concezione allargata dell’insegnamento, in cui il momento dell’osservazione è fondamentale, è quello della ricerca-azione (R-A). L’espressione "Action-Research" si deve allo psicologo sociale K. Lewin, ma è stata introdotta in ambito pedagogico alla fine degli anni ’70 da Elliott e Adelman (progetto Ford d’insegnamento). Brevemente, questa si configura come una riflessione eclettica ma sistematica su problemi pratici sperimentati da chi lavora in contesti educativi con la prospettiva di poter prendere decisioni sulla loro risoluzione. Un metodo di lavoro, quindi, che inserisce l’insegnante in un progetto, coinvolgendolo in un processo di riflessione e di analisi del proprio operato. La R-A si muove principalmente su questi piani: sviluppare un piano d’azione; agire per realizzarlo; osservare gli effetti nel contesto in cui si porta a termine l’azione; riflettere sui suoi effetti. Mettiamo che, in questo percorso, mi trovi ad osservare l’interazione in classe durante una certa attività di gruppo, è chiaro che alcune distorsioni possono derivare dalle mie condizioni psico-fisiche, dalle aspettative e dalla tendenza a fornire dati che concordino con le idee personali. L’utilizzo di un osservatore esterno può essere molto utile per correggere il mio punto di vista e portare più trasparenza nell’analisi dei fatti.

In un recente studio pedagogico-filosofico sulla professione dell’educatore [BASSA POROPAT- LAURIA 1998] si fa notare come il termine "interosservazione" [BOZZI 1978] sia calzante per decrivere la modalità ideale di rapporto tra insegnanti nella condivisione dell’esperienza osservativa. Infatti, se ci rivolgiamo all’etimo notiamo che il prefisso "inter" indica una posizione o un moto descrittivi dell’unione e della relazione reciproca tra due elementi, mentre il latino "ob-servare" significa "mantenere, serbare verso...". Il nostro attuale significato di "guardare attentamente, criticare, notare e rilevare" trascura quello originario di rispetto di una regola e di una promessa, da cui i derivati "osservanza" e "osservante". Tornando quindi all’interosservazione, il prefisso indica il movimento continuo che collega e confronta più posizioni, mentre l’osservazione riacquista il significato originario di "ob-serbare", ovvero mantenere e rispettare le caratteristiche dell’oggetto osservato. Non è proprio questo l’obiettivo di base che gli insegnanti impegnati nella pratica descritta perseguono?

Forse tutto ciò può sembrare teorico e di difficile applicazione. Sono invece d’accordo con Lewin che "niente è più pratico di una buona teoria" e l’interosservazione, come da ora chiameremo la pratica di osservazione reciproca tra insegnanti, assume valore solo se viene contestualizzata e formalizzata in un progetto comune. Ritorniamo dunque all’esempio dell’osservazione dell’interazione in classe durante un’attività di gruppo. Dopo aver determinato il piano di azione, che può essere più o meno esteso, a partire dall’individuazione di uno o più problemi relativi alla didattica in classe, gli insegnanti stabiliscono una scaletta di interosservazioni, che accompagnano ovviamente il lavoro individuale di osservazione della classe.

Nel tentativo di tenere sotto controllo le possibili fonti di errore ritenute responsabili di inficiare l’attendibilità delle osservazioni è possibile adottare vari accorgimenti:

(1) È buona norma prolungare l’osservazione nel tempo dato che gli studenti tendono a comportarsi diversamente sapendo di essere osservati. È possibile introdurre strumenti che consentano di osservare senza che i soggetti se ne accorgano (diari, registrazioni audio e video) ma occorre sempre considerare quale sia il mezzo più idoneo e meno invasivo.

(2) L’osservatore dovrebbe cercare di tenersi a distanza, lasciando che il gruppo-classe familiarizzi con la sua presenza (osservazione naturalistica mutuata dall’etologia e dall’antropologia).

(3) Non è necessario esplicitare che cosa di volta in volta stiamo osservando. Per esempio, se decidiamo di lavorare su un gruppo che sta facendo un gioco e in particolare ci interessa registrare l’aggressività di uno o più studenti, possiamo semplicemente dire che siamo lì per vedere come funziona l’attività proposta.

Infine, un aspetto importante dell’interosservazione riguarda la modalità di comunicazione tra gli insegnanti. Vorrei qui suggerire alcuni accorgimenti che risultano preziosi per una comunicazione "ecologica": credo, infatti, che sia facilmente condivisibile l’affermazione che ogni insegnante tende a proteggere il proprio operato e a vivere con una certa dose di ansia l’intervento di una figura esterna. È fondamentale, come primo passo, che l’insegnante-osservatore ascolti in modo empatico le ragioni dell’osservato. Più si chiariscono le descrizioni delle tematiche, o dei problemi, della classe indagata, più spazio diamo alla voce del collega, più siamo certi di comprendere e condividere l’obiettivo, che può essere individuato, a partire dal progetto iniziale, in aree diverse della didattica. Solo per accennare qui alcuni esempi, possiamo selezionare i seguenti aspetti: come l’insegnante dà le istruzioni delle attività; quanto tempo parla e quanto ne lascia agli studenti; comportamento di uno o più allievi problematici; equilibrio delle diverse abilità linguistiche all’interno del piano della lezione; reazione degli studenti ad una certa attività, ecc. Se le osservazioni si ripetono nel tempo e, come abbiamo visto, fanno parte di una ricerca progressiva e sempre aperta a cambiamenti e aggiustamenti, il che cosa osservare emergerà in modo naturale, come necessaria conseguenza di un piano d’azione condiviso.

Anche per quanto riguarda il feedback, ad osservazione avvenuta, forse alcune considerazioni non sono così ovvie come appaiono. In quasi tutti gli studi sull’argomento, siano essi di tipo peculiarmente psicologico o più mirati alla didattica, si raccomanda di porre l’attenzione sulla scelta ponderata dei termini da usare nel riferire al collega le proprie considerazioni, evitando di criticare in modo troppo diretto o di porre con troppa forza argomentazioni e alternative. Si sottolinea inoltre la necessità di apprezzare in modo esplicito quelle che riteniamo qualità positive del lavoro osservato e di fornire sempre e comunque incoraggiamento.

Ho personalmente sperimentato, però, che se da un lato l’utilizzo di alcune strategie comunicative può essere indispensabile, ciò non esaurisce affatto la questione. Se non vogliamo che il feedback si trasformi in uno scambio formale di complimenti o, all’opposto, in una critica che può inutilmente ferire, occorre che siano rispettate almeno le seguenti condizioni: deve essere stata condivisa la fase progettuale della ricerca; è necessaria una autentica simmetria all’interno del rapporto; nell’ambito dell’agire comunicativo, l’ "ascolto empatico" [ROGERS 1951] va perseguito come fine e non come tendenza, per così dire, naturale. Niente è infatti meno spontaneo, almeno nella nostra cultura occidentale, della tutela delle relazioni dall’invadenza della soggettività.

 

Bibliografia

BASSA-POROPAT M.T. - LAURIA F. (1998) Professione educatore. Modelli, metodi, strategie d’intervento, ETS, Pisa.
BOZZI P. (1978) L’interosservazione come metodo per la fenomenologia sperimentale, in "Giornale Italiano di Psicologia", 2, vol. V, pp. 229-39.
LEWIN K. (1946) Action Research and Minority Problem, in "Journal of Social Issues", 2, pp. 34-46.
LEWIN K. (1951) Field Theory in Social Science, Harper & Row, New York, trad. it. Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il Mulino, Bologna 1972.
NUNAN D.- LAMB C. (1996) The Self Directed Teacher, Cambridge University Press, Cambridge.
ROGERS C.R. (1951) On Becoming a Person. A Therapist’s View of Psychotherapy, Houghton Nifflin, Boston, trad. it La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze 1970.

a.zacchi@libero.it

 

© Didattica & Classe Plurilingue 2002