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N.1
aprile-maggio 2002


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Giocare a un'altra lingua
C. Humphris, M. De Carlo, English through play, Anicia, Roma, 1994, pp. 66.

Ci sono due tipi di libri familiari all’insegnante di lingue. Uno è il "corso di lingua", il libro di testo, quel tipo di libro cioè che mette in fila con un certo ordine il che cosa fare e il quando farlo, mostra come farlo e spiega o dovrebbe spiegare il perché, vale a dire le ragioni linguistiche, psicolinguistiche e pedagogiche per cui si sono decisi quei contenuti e quelle procedure didattiche. Il ragionevole accordo fra questi aspetti - il sillabo, il metodo e le tecniche, l'approccio - è ciò che dovrebbe costituire il banco di prova della coerenza, almeno, di un libro di testo. Se hai cento ore da passare con la tua classe, il libro ti dice come puoi impiegarle, annunciandoti non solo un certo tipo di percorso didattico, ma anche una concezione della lingua, un'immagine dell'insegnante e dello studente, un'idea di educazione, insomma una certa compiutezza del tutto. L’insegnante e i suoi studenti, se sono d’accordo con l’autore, se si trovano bene con le sue indicazioni, non hanno che da seguire il libro, e il più in molti casi è fatto. Naturalmente poi non è sempre così: l’insegnante prende un po’ da un testo, un po’ da un altro, aggiunge del suo, forse si espone e dà spazio a ciò che viene fuori dagli studenti e via dicendo. E se ha buone ragioni per farlo, se riesce a costruirsi in questo modo una sua coerenza, va bene così. Una riserva generale, a mio parere legittima, verso i libri di testo (al di là di quelle, specifiche, che si possono nutrire verso questo o quel libro), e che spesso spinge a utilizzarne più di uno o a non utilizzarne affatto, è infatti che in genere prefigurano il corso di lingua come una sorta di autostrada: vogliono essere la via più breve, sicura e "servita" per arrivare a destinazione. Tutto è previsto e predisposto: le situazioni, le tematiche, le intenzioni, le strutture e il lessico sono tutte lì, non c'è che da trasmetterle e farle imparare. Le attività perciò non somigliano tanto a esperienze da far vivere, da cui ciascuno trarrà ciò che vuole e può trarre, ma a passaggi obbligati. Il tragitto del gruppo e dei singoli studenti, con i suoi imprevisti, i suoi tempi sfalsati, la sua potenziale ricchezza e avventurosità, è così regolamentato da tabelle di marcia, caselli, corsie preferenziali, minimi e massimi di velocità, stazioni di servizio, spuntini all'autogrill, oleandri. Tutto un panorama stereotipato in cui transitare. La presenza di tanti cervelli e sistemi linguistici diversi al lavoro, tanti quanti sono gli studenti, non è più una risorsa, è una complicazione da liquidare, un pedaggio da pagare. Ma questo è un altro discorso (non dico che si dovrebbero abolire i libri di testo; dico solo che andrebbero maneggiati con cautela, concedendosi ogni tanto il diritto di ripensarne la funzione dominante).

Il secondo tipo di libro è quello che si potrebbe definire "ricettario", se non fosse che il termine non suona certo come un complimento (almeno ai nostri orecchi di insegnanti che hanno imparato a diffidare, appunto, delle "ricette"). Eppure rende piuttosto bene l'idea, e in fin dei conti l'Artusi ha un posto d'onore non solo sugli scaffali delle cucine. Si tratta infatti di quei repertori di attività pensati per integrare i libri di testo o i cicli di lezioni che ci saremo costruiti da soli, non sostituirli. In questo senso non ci si dovrà aspettare da questi testi un percorso orientato, equilibrato e compiuto, bensì proposte e idee da selezionare e inserire eventualmente, a ragion veduta, nell'impianto e nella programmazione delle proprie lezioni. Eppure un filo conduttore in questi "ricettari", di cui non si può non apprezzare lo sforzo e l'abbondanza di fantasia, c'è, e dichiarato. Talvolta è rappresentato dall'abilità al cui sviluppo le attività ideate sono rivolte. Avremo così un libro che contiene, per esempio, cento attività per lavorare sulla grammatica, un altro che ne ha altrettante per la produzione orale, un altro ancora sulla scrittura, sul lessico e così via. Altre volte invece il filo conduttore è meno, per così dire, scolastico. Ci saranno perciò libri che propongono attività magari mirate a obiettivi diversi ma con un denominatore comune, per esempio il riproporsi di essere "divertenti", l'implicare sistematicamente il movimento fisico, l'utilizzare solo immagini o suoni come input, o ancora che suggeriscono mille modi per sfruttare in classe la poesia, la musica, e la lista potrebbe allungarsi. Curiosamente, infine, sono a volte proprio questi "ricettari" - cui alcuni rimproverano di dare un'immagine un po' troppo disinvolta e semplificata dell'insegnamento/apprendimento linguistico - a propugnare un'idea pedagogica forte e trasparente.

Libri di questo tipo non è che nel mercato italiano abbondino. Uno dei rari esempi è dato appunto da quello che vorrei invitarvi a leggere (uno dei suoi autori è infatti inglese e pedagogista di formazione). Si intitola English through play, ma è scritto in italiano, e il sottotitolo è "50 giochi per l'insegnamento dell'inglese nella scuola elementare", ma, come vedremo, è tranquillamente utilizzabile anche per l'insegnamento dell'italiano. In libreria non lo troverete molto facilmente sugli scaffali, ma potete ordinarlo, anche direttamente alla casa editrice Anicia (il telefono è 06-5894742, rispondono persone gentili e disponibili). Il prezzo, quando l'ho preso io, ma qualche anno fa, era di 15.000 lire.

Quello che questo libro ci dice in parte non è una novità, o almeno non è qualcosa che oggi dovrebbe trovare molti oppositori di principio. E cioè: imparare una lingua può essere divertente; il divertimento è fonte di energia; l'energia è indispensabile per raggiungere obiettivi seri; i giochi sono perciò un ottimo mezzo per imparare una lingua; sono anche dei rituali, e una caratteristica dei rituali è quella di risvegliare le energie e incanalarle - nel nostro caso verso obiettivi di apprendimento - proprio attraverso lo sfogo delle tensioni che in essi si realizza; i bambini (dicono gli adulti, e almeno in questo caso i bambini sono d’accordo) richiedono, cognitivamente e di fatto, di giocare per svilupparsi, crescere, imparare, imparare anche un'altra lingua. Di giocare a un'altra lingua.

Ma ci sono, anche e soprattutto, diverse cose non scontate che questo libro dice e invoglia a mettere in pratica. Cose, almeno, che a volte si scordano o trascurano. Ne propongo alcune: i giochi sono un mezzo serio per fare nuove esperienze, o rifare esperienze note, in una nuova lingua; un mezzo serio perché vincolato da regole condivise lealmente, non perché noioso o "adulto"; i giochi per imparare una lingua dovrebbero essere giochi veri, cioè giochi a cui si può giocare con gusto anche una volta usciti di scuola; anche l’insegnante può divertirsi insegnando, anzi, dovrebbe divertirsi insegnando, e questo può avvenire solo a patto che creda alla serietà del gioco, delle sue regole, dei suoi obiettivi (tanto più che il primo passo per assicurarsi che i bambini abbiano capito bene il meccanismo di un gioco, dicono gli autori, è che l'insegnante stesso giochi e dimostri il gioco); i giochi non sono dunque un modo per alleggerire le lezioni, ma semmai una fonte di ispirazione per tutto l'insegnamento: nei giochi sono infatti i bambini, in larga parte, a controllare quello che accade in classe (sono, per esempio, coinvolti direttamente nell'organizzazione dei giochi, nello spostamento di banchi e sedie), diventano soggetti, non sono più, come troppo spesso accade, oggetto di insegnamento; i giochi, proprio in virtù dell'allentamento delle tensioni che riescono a produrre, sono forse il terreno migliore in cui l'insegnante può dimostrarsi più esigente, nel far rispettare sia le regole sia, perché no?, una certa correttezza linguistica; nella competizione ludica i bambini si abituano a sdrammatizzare e accettare gli insuccessi; nei giochi i bambini - che conservano ancora un legame magico con le parole - hanno la prova che la nuova lingua "funziona", cioè produce degli effettivi cambiamenti nel mondo, "si vince o si perde", e "chi perde vince lo stesso", e, quel che più conta, hanno la prova che quella lingua funziona in mano loro.

Christopher Humphris e Maddalena De Carlo hanno inventato o reinventato cinquanta giochi per consolidare, ma anche presentare, contenuti linguistici ad alunni della scuola elementare. Si tratta naturalmente, come dicevo, di contenuti linguistici dell’inglese. Troverete quindi alcuni giochi costruiti su tratti o scogli tipici di questa lingua. Ci sono per esempio sei giochi per lo spelling, notoriamente arduo per l'inglese. Il fatto che per l'italiano il passaggio allo scritto lo sia in misura diversa e minore non significa però che sia un'impresa di poco conto per i piccoli "neoitaliani". Anche a leggere alla svelta, comunque, non credo che troverete neanche un solo gioco che non sia direttamente adattabile all'italiano. Fra i contenuti linguistici proposti ci sono infatti - per usare le categorie grammaticali cui gli autori, pur non "grammaticalisti", ragionevolmente e soprattutto ad uso degli insegnanti non si sottraggono - i verbi ausiliari, i numeri, il presente e il passato, le preposizioni, l'imperativo. Naturalmente questi contenuti non sono presentati integralmente, ma attraverso l'invito ad usarne esponenti funzionali allo svolgimento dei giochi. Ci sono poi anche alcuni giochi per far crescere e consolidare il lessico, in particolare quello relativo al linguaggio della classe, e altri per sviluppare le abilità di studio o che richiedono "l'uso di saperi presi a prestito da altre materie scolastiche". Ogni gioco può essere infine un modello per costruirne altri, variando i contenuti linguistici oppure modificando altre caratteristiche, come l'ambientazione, il tipo di interazione (coppie, gruppi, partecipazione individuale, classe intera insieme all'insegnante) o la disposizione dell'aula. È una mentalità che si cerca di incoraggiare, nell’insegnante, una mentalità mobile e attenta ai dettagli, quale i giochi richiedono, e che può essere introdotta con successo in tutti i momenti dell'insegnamento. Anche quando non si gioca, il clima ritualistico dei giochi, la loro concretezza di esperienze sia pure simboliche, la collaborazione di gruppo, l'insuccesso neutralizzato e condiviso come uno degli esiti possibili, anche quando, come direbbero alcuni, "si studia", aspetti come questi dovrebbero, credo, essere tenuti fermi.

Questo libro è pensato, anche, per alleggerire all'insegnante (di inglese) il lavoro di preparazione delle lezioni. In mano a un insegnante di italiano, credo, può essere in aggiunta un'occasione per divertirsi a escogitare delle versioni italiane dei tanti giochi.

Se qualche insegnante pensa che "i giochi, sì, vanno bene, ma ci vuole un sacco di tempo a organizzarli", gli autori del libro hanno pronti dei consigli per ridurre questo tempo al minimo. Ogni gioco è corredato da precise istruzioni su come modificare, eventualmente, la disposizione dell'aula (la descrizione dei giochi è sempre accompagnata da una piantina) e su come formare i gruppi. Non solo: per far eseguire le operazioni senza fare troppo rumore si suggerisce di ricorrere a questo ulteriore gioco-espediente: "una spia pericolosa ha messo dei microfoni segreti nell'aula e i bambini devono essere estremamente silenziosi per non rivelare ciò che stanno facendo".

Come si immaginerà, la lingua messa in gioco in queste proposte didattiche è innanzitutto la lingua che serve per svolgere i giochi medesimi e che corrisponde più o meno a quella che i bambini incontrano nei primi tempi di studio della lingua. Tuttavia, l'impegno che i bambini vi profondono e il piacere che ne ricavano può forse rappresentare un buon viatico per affrontare esperienze comunicative e di apprendimento più complesse. Ogni esperienza piacevole lascia dietro di sé una traccia che viene conservata nelle esperienze successive, anche in quello dove magari il piacere intrinseco risulti magari minore o meno evidente.

La maggior parte dei giochi proposti prende sul serio un'idea che va diffondendosi fra i linguisti: vale a dire che la lingua si acquisisce a "pacchetti" lessicali grammaticalizzati, e non, per così dire, mettendo insieme parole grazie a una sorta di cemento grammaticale. "Lo strutturalismo asseriva che l'apprendente, facendo proprie le 'regole' del sistema, era poi in grado di generare frasi corrette. Sembra ora plausibile che una parte importante dell'acquisizione della lingua sia la capacità di produrre frasi lessicali come insiemi non analizzati o 'pezzi di lingua pronti all'uso' (chunks) e che queste unità divengano i dati grezzi sui quali l'apprendente comincia a percepire strutture, morfologie e tutti quegli altri tratti della lingua tradizionalmente intesi come 'grammatica'. All'interno di un modello simile, le frasi sono la risorsa principale che consente di dominare il sistema sintattico" (M. Lewis, The Lexical Approach, LTP, 1993). Attenzione però a non confondere queste "unità" con quelle frasi stereotipe, poco naturali e attendibili, ancora così presenti nell'insegnamento linguistico elementare; quelle, per intendersi, fatte apposta per illustrare e far memorizzare strutture grammaticali (Lei è una professoressa/Lei è la mia professoressa di matematica). Le "frasi" da prendere in considerazione saranno piuttosto quelle espressioni archetipiche proprie dei vari contesti e sottocontesti naturali di vita, e che riflettono immediatamente un significato pragmatico non equivoco e accettato da un nativo come espressioni istituzionalizzate. Nel nostro libro di giochi si trovano infatti enunciati come - in versione italiana - oggi com'è il tempo?, e questo di che cosa è fatto?, com'è in italiano x?, che dovrebbero rendere l'idea di cosa sono queste unità significative da proporre così come sono, non analizzate nei loro componenti, all'uso e agli archivi mentali degli alunni.

I giochi contenuti in questo libro, come ho detto, sono cinquanta. Proverò a raccontarne uno. E sceglierò l'ultimo, che è un po' diverso da tutti gli altri; il più audace, qualcuno dirà. Una cosa che spesso si reputa difficile con gli apprendenti giovanissimi è il discorso esteso (temendo che si smarriscano, si annoino, partano per la tangente), e proprio a una iniziazione alla comprensione del discorso orale esteso è destinata l'attività con cui il libro prende congedo dal lettore. Sottolineerei intanto la parola "comprensione". Ai bambini si propone infatti di iniziare a capire, non a produrre, un discorso naturale, dunque di una certa lunghezza e complessità. Dico questo, che sembra una banalità, perché a volte si pensa erroneamente che chi non riesce che a dire poche frasi, non possa stare lì ad ascoltarne utilmente un mucchio (e quando dico utilmente, intendo cavandone un qualche senso). Invece la dimensione ricettiva è per sé importante: è attraverso ripetute esposizioni alla lingua naturale che si acquisisce il senso, "semantico" e "grammaticale", della lingua. Naturalmente l’importante è che non si richieda ai bambini una comprensione completa del discorso, e non si voglia poi magari testarne l'esattezza. Sarà invece sufficiente trovare un modo per tenerli impegnati nell’ascolto, nel tentativo di ricavarne un senso, sia pure limitato, il loro, quello di ciascuno di loro. Il modo che Christopher Humphris e Maddalena De Carlo hanno escogitato è questo. Si parte da una favola, Cappuccetto Rosso. L'insegnante divide i bambini in gruppi di 9, quindi assegna a ognuno dei primi 9 bambini una parola (o gruppo di parole) della favola. Parole o gruppi di parole come Cappuccetto Rosso, il lupo, il cacciatore, porta, torta, alza tu il paletto, bottiglia di vino ecc. Poi assegna le stesse parole a ognuno dei secondi 9 bambini e così via. Se i bambini non sono tanto numerosi, si farà un solo gruppo. Se sono davvero pochini, meno di 9, si daranno meno parole, o magari se ne daranno un paio ad ogni bambino. L'importante è che le parole assegnate non siano troppe o troppo poche (9 sembra agli autori un numero giusto). Durante la prima assegnazione delle parole, l'insegnante le scrive alla lavagna, le traduce e le fa ripetere in coro. A questo punto l'insegnante comincia a leggere ad alta voce il racconto, con espressione, e "ogni volta che un bambino sente e riconosce la propria parola si alza in piedi, fa un giro di 360° e si siede di nuovo". Come si vede il meccanismo di questo gioco, così come quello di tutti gli altri, è semplice; ma non sarà un guaio se all'inizio, per dare un po' una mano, l'insegnante dovrà mettersi lei/lui ogni tanto a roteare.

Leonardo Gandi
Email leonardogandi@libero.it

 

© Didattica & Classe Plurilingue 2002